Arthur Duff (Wiesbaden, 1973) vive per molti anni negli Stati Uniti e solo successivamente si stabilisce in Italia. Sin dalle sue prime sperimentazioni, si concentra sulla creazione di opere complesse realizzate utilizzando laser, trecce in poliestere, neon e ricami, per ottenere opere a metà tra reale e digitale. È un artista poliedrico che opera tra tecnologia e fisicità, scienza e corpo, passando dal disegno al ricamo su tessuti in cotone. Realizza sculture di roccia vulcanica e installazioni al neon per dare concreta plasticità al suo pensiero. Le sue opere si concentrano sulla creazione di «spazi complessi di esperienza, visiva e fisica insieme, che utilizzano la proiezione laser o la pulsazione dell’immagine (sia essa luminosa, o ottenuta attraverso pattern e ricami)» (pola 2016). L’obiettivo, per Duff, è quello di «dare vita a configurazioni sempre sorprendenti, in dialogo con le coordinate spaziali e conoscitive di un presente ormai quasi interamente costruito da esperienze di realtà digitale e virtuale» (pola 2016). I lavori recenti sono orientati alla ricerca della rappresentazione di «paesaggi primordiali di una materia senza umanità, dove l’unico segnale umano resta proprio il connettivo luminoso del linguaggio» (pola 2016); luce, spazio e materia: questi i caratteri della sua arte. Altrettanto distintivo delle sue pratiche è la rappresentazione del pieno e del vuoto, come nei lavori su carta nei quali utilizza la tecnica della foratura per mezzo di un punteruolo. In un’intervista, afferma che nelle sue opere «non c’è un “vero” davanti o dietro. In questo senso, tento di mettere in discussione certi meccanismi percettivi che stanno alla base di come attualmente ci relazioniamo alla realtà» (Fiz 2021). In Duff vi è una continua «calibrazione di sinergie linguistiche alternative», grazie alle quali si crea il propulsore di un percorso artistico «efficace nel rivalutare e ricucire le idiosincrasie dell’attualità» (Silvioli 2018).

L’opera della Collezione Canclini, Under my skin del 2007, esposta nel 2015 alla mostra Essere è tessere di Milano (Milano 2015), propone un inserto verbo-visivo che dà il titolo all’opera. Riprende la produzione di inizio millennio in cui ricorre il testo scritto, insieme a nodi, ricami, corde e uso del laser, come per esempio in Fight-flight (2003) tra le prime opere in cui i nodi delineano il testo. Le parole sono usate come fossero immagini tese a far «funzionare una superficie: una sorta di metonimia, non letteraria ma visiva» (Pola 2020, p. 46). (l.v.)

 

Bibliografia essenziale: Milano 2015 ; pola 2016; Silvioli 2018; Pola 2020; Fiz 2021.